Con le immagini.....è più facile
4/05/2014
Nella finale della coppa calcistica nazionale ogni Paese offre uno
specchio di sé. Anche noi, modestamente. Si comincia con un
simpatico assalto degli ultrà della Roma a quelli napoletani. Non
importa che la partita sia Napoli-Fiorentina e i romanisti non
c’entrino nulla. La finale di Coppa Italia è una sorta di convegno
dove delegazioni di violenti provenienti da ogni bar sport della
penisola si danno appuntamento fuori dallo stadio per regolare i
conti in sospeso: laziali contro romanisti, romanisti contro
napoletani, pare addirittura napoletani contro veronesi. Al culmine
della battaglia, una brigata di teste di cuoio giallorosse tende un
agguato ai marines partenopei, o viceversa: dall’immane scontro di
cervelli scaturisce un parapiglia. Da qui in poi i contorni della
vicenda diventano ancora più sfocati. L’unica certezza è che
qualcuno estrae una pistola e spara. Riassumendo: un agguato per le
strade e l’assolo di un pistolero. Non a Tripoli o a Beirut, dove
al massimo può succedere di imbattersi in Dell’Utri, ma nel cuore
di Roma, capitale di un sedicente Stato occidentale. Sul selciato
restano vari feriti, uno dei quali messo malissimo. Gli altri
travolgono lo sparatore e ne fanno poltiglia da pronto soccorso.
Dopo essersi espressa fuori dallo stadio, la cultura sportiva
degli italioti si trasferisce all’interno e assume la forma di due
valentuomini appollaiati sopra una balaustra, uno dei quali indossa
una maglietta che inneggia all’assassino del poliziotto catanese
Raciti, a cui un ultrà tirò addosso un lavandino. I due pensatori
si presentano come i capipopolo della tifoseria napoletana. Pare che
senza il loro meditato assenso non si possa disputare la partita. I
desideri degli altri settantamila dello stadio e dei milioni davanti
alla tv non contano ovviamente nulla. Solo i pendagli da curva hanno
il monopolio della minaccia fisica e verbale. Marek Hamsik, il
capitano del Napoli che un destino milionario ma bizzarro ha condotto
dalla natia Slovacchia a questi climi molto meno temperati, si
attarda a parlamentare con gli ambasciatori ultrà e, quando ormai si
sta consumando la vergogna di una resa ai violenti in diretta
televisiva, in un eccesso di magnanimità i capibastone concedono
alle squadre e all’Italia intera il permesso di giocare.
Con un’ora di ritardo tutto è pronto per la cerimonia dell’inno
nazionale ispirata al modello americano del Superbowl, con una
cantante, Alessandra Amoroso, che intona «Fratelli d’Italia» al
microfono. Ma i fratelli riuniti allo stadio fischiano l’esecuzione
fin dalle prime note e ha un bel sgolarsi Matteo Renzi in tribuna:
quando i fischi non bastano più, a soffocare la musica arriva il
sostegno di qualche bombetta carta, una delle quali manda un vigile
del fuoco all’ospedale.
Ora che gli agguati, gli spari, i ricatti, i fischi e i petardi
sono finiti, la finale di Coppa Italia può persino cominciare.
L’Italia, quella è già finita da un pezzo. Naufragata in un
profluvio di parole, proclami e decreti che servono a coprire la
mancata applicazione delle leggi. Perché se un hooligan inglese o
spagnolo si azzardasse a fare anche un decimo delle cose che vi
abbiamo sommariamente raccontato passerebbe il resto della sua
giovinezza in carcere, meglio ancora a compiere qualche lavoro
socialmente utile. Come del resto chiunque di noi, se commettesse
quegli stessi reati lontano dallo stadio, ormai ridotto a porto
franco della bestialità tribale travestita da «onore e rispetto»
non si sa di chi, certo non degli altri e tantomeno di se stessi. I
bambini inquadrati sugli spalti dell’Olimpico avevano sguardi
impauriti e severi: un verdetto di sconfitta per tutti.