martedì 26 luglio 2016

 CANONE RAI

Il canone Rai-tv è obbligatorio e lo stiamo pagando nella bolletta per la luce.A che prò ?
Perchè ben 94 dirigenti Rai festeggino alle nostre spalle di poter vivere con più di 200.000 euro annuo di stipendio.
Molti di essi  non hanno incarico e si godono il ben di Dio da casa loro.


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29 luglio  2016
 L’Agenzia delle Entrate ha reso pubblico un importante chiarimento rivolto a tutti i contribuenti relativamente al pagamento del canone Rai.
Se il canone Rai viene addebitato per errore, il cittadino non è tenuto a pagare ed aspettare per chissà quando l’eventuale rimborso.
Si può ignorare la pretesa, conseguente ad errore, ed effettuare il pagamento della sola quota energia, come pagamento parziale. Nella maggior parte dei casi, basta solo indicare nella causale di versamento cosa si intende pagare.
L’ Agenzia delle Entrate effettuerà i successivi riscontri sulle singole posizioni.
Se l’errore non è del contribuente ma dell’Agenzia, in altre parole, il cittadino non potrà essere obbligato a versare in anticipo tributi che non gli spettano.
E’ un importante cambiamento della solita logica fiscale secondo la quale il cittadino deve prima pagare il Fisco e poi chiedere spiegazioni ed eventuali rimborsi.
Il contribuente può –pertanto- stracciare il bollettino che gli è arrivato e compilarne uno nuovo che non tiene conto del canone Rai.
Le società elettriche che riceveranno il pagamento di una bolletta parziale dovranno semplicemente passare la pratica all’Agenzia Entrate, che gestirà la segnalazione.

Nel caso in cui il contribuente abbia invece già pagato l’intera somma richiesta nella bolletta, potrà “richiedere il rimborso del canone TV” con le modalità che saranno previste “da un apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia che sarà emanato nei prossimi giorni”.



giovedì 21 luglio 2016


ACCADDE OGGI
E' la notte tra il 20 e il 21 luglio 1969: l'uomo sbarca sulla luna

Con le immagini .... è più facile
luna



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domenica 17 luglio 2016

PENSIERO MATTUTINO
E' da sempre connaturato all'uomo farsi domande su grandi questioni e su piccoli fatti quotidiani. Quando non ci chiediamo più nulla , vuol dire che abbiamo perso interessi e, insieme, il gusto a fare e a reagire. È un brutto campanello. Il mondo non ci appartiene più e noi non gli apparteniamo.
A questo pensavo nel sentirmi raccomandare da un amico di godermi le giornate tra passeggiate, letture e partitelle  a carte. Se mi abbia procurato tristezza o angoscia, non saprei. Forse, entrambe le cose. Per fortuna mi viene in aiuto un verso di Aldo Palazzeschi: “Quando alla finestra / assisto / al tramonto del sole che sparisce lentamente / dietro il colle del Gianicolo / alla fine mi domando: chi ha combinato quello che ho visto?”

mercoledì 13 luglio 2016

UNA TRAGEDIA ITALIANA
 treni

 Vorremmo vedere davanti alle telecamere il minor numero possibile di ministri affranti, impegnati a interpretare un lutto puramente formale. Vorremmo vedere meno presidenti del consiglio e ministri in quel tratto di ferrovia tra Andria e Corato. Vorremmo, invece, vederli a un tavolo da lavoro impegnati ad affrontare seriamente una questione che affligge questo Paese dall’unità e che a volte esplode in drammi collettivi come quello di oggi: la Questione Meridionale, dimenticata agli inizi degli anni Novanta perché faceva piacere a Bossi e ai leghisti che ora corrono con faccia bronzea al Sud per raccattare voti. Quei morti sono sicuramente il risultato di un tragico errore. Ma sono ancor di più il risultato di una politica che non ha dato mai risposte alle popolazioni meridionali, che si è voltata dall’altra parte, che ha accettato di convivere col malaffare, la corruzione e la criminalità organizzata, che ha considerato il Mezzogiorno un luogo non da valorizzare ma da dimenticare e, semmai, da scoprire solo nei mesi estivi, quelli dedicati alle vacanze. Il Sud andava cancellato non “salvato” e sanato.
Quei due vagoni che nello scontro si sono quasi disintegrati non facevano parte di treni di vacanzieri, non attraversavano le più esotiche rotte costiere. Erano treni di poveri cristi. Da quelle parti le persone vengono chiamate “cristiani”. Anche per questo Carlo Levi intitolò il suo più bel libro “Cristo si è fermato a Eboli”. Nell’uso improprio di quel sostantivo c’è in qualche maniera un richiamo alla spiritualità, all’anima, all’essenza morale e culturale: siamo persone non solo perché siamo fatti di carne e di ossa ma perché dentro abbiamo dell’altro. E parte di quello che abbiamo dentro lo abbiamo perduto su quel binario maledetto. Chi scrive è nato in Puglia, cresciuto in Puglia, lavorato per un po’ di tempo in Puglia e sono decenni che lì si combatte con un sistema ferroviario arretrato, con i binari unici che negli ultimi cinquant’anni hanno faticato tremendamente a diventare doppi.
Da cronista, a chi scrive, spesso è capitato in tempi ormai lontani di raccontare piccole tragedie tutte legate all’arretratezza di un sistema che è un insulto per l’Italia, non per i pugliesi che lo subiscono. E un atto d’accusa nei confronti di chi in tutti questi anni, mentre la Germania a tempo di record sanava il dualismo tra Est e Ovest, ha assistito inerte all’ampliamento di un divario che solo negli anni Settanta è stato parzialmente (ma nemmeno allora sufficientemente) colmato. Un divario che nelle infrastrutture è stato solo superficialmente intaccato.
Banca d’Italia ci ha comunicato che il Sud nel 2015 ha avuto un aumento del Pil superiore a quello del Nord-Est e del Centro, pari a quello del Nord-Ovest. Ma questi sono percentuali. Poi, però, basta salire su un treno per rendersi conto di quanto il resto d’Italia sia lontano da Brindisi o da Taranto, da Mesagne o da Manduria. Ora piangiamo i “cristiani” morti su quel binario, trafitti da vetri e lamiere come le carni di Cristo in croce lo furono con i chiodi. Ma passato il lutto, resterà un solo modo per onorarli degnamente: fare in modo che Cristo riesca finalmente ad andare oltre Eboli, semmai su linee ferroviarie a doppio binario.
  Antonio Maglie





martedì 12 luglio 2016

Graziano Pellè, il rigorista azzurro che come un banchiere di Siena millantava di fare il cucchiaio ai tedeschi e ha finito per scavarci la fossa, andrà a fare cucchiaini in Cina per la modica cifra di un milione e duecentomila euro al mese. Se uno fa notare che guadagnerà da solo come mille dipendenti di un call center, le cornacchie del turbocapitalismo starnazzano: è il mercato! è il mercato! Ma guadagnerà anche come Messi e Ronaldo, che sono un tantino più forti di lui, e qui la presunta meritocrazia del mercato non c’entra. C’entra che Pellè si fa pagare carissimo la destinazione disagiata (il campionato cinese ha lo stesso fascino di una cravatta di Di Maio) e che chi lo ha ingaggiato applica al calcio la lezione devastante della finanza smargiassa: valutare molto un bene che vale poco per fare credere ai boccaloni che valga qualcosa. In fondo Pellé in Cina per quarantamila euro al giorno è l’equivalente calcistico di un derivato. Sempre che poi glieli diano sul serio, tutti quei soldi: non risulta che il sistema cinese brilli per trasparenza e affidabilità. 

Ciò premesso, se un quotidiano di Shanghai in vena di sopravvalutazioni giornalistiche fosse disposto a sganciare un decimo della cifra, pagamento anticipato, potrei persino prendere in considerazione l’ipotesi di andarvi a scrivere il «Buongiolno» per un paio d’anni. E senza neanche ammorbare l’uditorio con le solite frasi fatte sull’esperienza stimolante e il bisogno di nuove sfide. Coi denari guadagnati ricompro Pellè e lo metto in cucina a lucidare cucchiai.
La Stampa                                                                                                             12.7.2016

lunedì 4 luglio 2016

Risultati immagini per fenestrelle campo di concentramentoIl Regno delle due Sicilie, verità storiche occultate
Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau ... nomi sinistri che evocano la barbarie nazista dove, durante la Seconda guerra mondiale, furono ammassati in condizioni disumane, in numero incalcolabile, milioni di persone, la maggior parte delle quali perirono tragicamente. Giustamente la storia ha pronunziato il suo verdetto di assoluta condanna per queste pagine oscure. Eppure sono esistiti altri luoghi di spietata brutalità, meno noti o del tutto ignorati. Uno di essi si trova in Piemonte, per la precisione a Fenestrelle nella cui fortezza vi furono stipati, tra il 1860 e il 1870, migliaia di meridionali che si erano opposti all’invasione dei “Mille” e dell’esercito di Cialdini.

Una firma prestigiosa del giornalismo italiano, Paolo Mieli, ne ha ricordato l’esistenza nell’Ottobre del 2004, recensendo, sulle colonne di uno dei quotidiani italiani più diffusi, un libro conosciuto solo dagli addetti ai lavori, “I vinti del Risorgimento”, di Gigi di Fiore. I reclusi erano fatti morire di inedia e di freddo: persino vetri ed infissi erano stati asportati perché subissero i rigori del gelido inverno. Quelli che sopravvivevano agli stenti e alle privazioni erano assoggettati ad una morte atroce: i corpi venivano sciolti nella calce viva, collocata in una grande vasca nel retro della chiesa all’ingresso della fortezza. Neppure la pietà di una tomba era loro concessa. Perché tanto accanimento contro questa gente? Qual era la loro colpa dal momento che venivano internati senza alcun processo? Semplicemente erano rimasti fedeli al loro legittimo sovrano, Francesco II, Re delle Due Sicilie e non avevano voluto accettare la dissoluzione di quel Regno e la sua annessione al Regno di Sardegna, autoproclamatosi “Regno d’Italia”.

Ed avevano ragione: si stava molto meglio a Napoli e a Palermo che a Torino. La storiografia recente ha spazzato via tutte le accuse di arretratezza che la propaganda liberale aveva diffuso per giustificare l’invasione del Regno delle Due Sicilie. Essa era stata deliberatamente orchestrata. Esempio lampante: nel 1851, Lord Gladstone, ministro inglese, dopo un viaggio di piacere di tre giorni nel Golfo di Napoli, scrisse una lettera pubblica a Lord Aberdeen, ove definisce il Regno delle Due Sicilie “la negazione di Dio”. Più di trent’anni dopo tornò a Napoli per un congresso del partito liberale e confessò candidamente di aver scritto quella lettera dietro ordine del Primo Ministro inglese dell’epoca, Lord Palmerston, “il grande fratello” massone, e che tutto quello che descriveva di quell’abominevole Regno, lui, in realtà, non lo aveva mai visto, glielo avevano dettato i “patrioti” italiani.

Insomma, una menzogna. Come quelle che sparse il Poerio, esule napoletano, graziato da Ferdinando II, sui giornali che auspicavano l’abbattimento del Regno del Sud a causa del regime tirannico che vi sarebbe stato praticato. Una volta che l’unità d’Italia era stata fatta, si potevano impunemente far uscire gli scheletri dall’armadio. Ed ecco le ammissioni di Petruccelli della Gattina, deputato del neonato Regno d’Italia: “Poerio è un’invenzione convenzionale della stampa anglo-francese. Quando noi agitavamo l’Europa e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai credenti leggitori di un’Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile che quell’orco di Ferdinando divorava ad ogni pasto. Inventammo allora il Poerio, fu creato da cima a fondo”. Insomma, quelli che hanno voluto l’unità d’Italia hanno preso sul serio la massima di Voltaire: “Calunniate, calunniate: qualcosa rimarrà”.

Le calunnie, si sa, sono dure a morire. Quelle contro il Regno delle Due Sicilie sono sempre lì, sui libri di storia che gli studenti italiani subiscono senza che i loro professori, generalmente, facciano un minimo sforzo per aggiornarsi. Leggendo, per esempio, lo studio di Spagnoletti, pubblicato da una casa editrice italiana tutt’altro che “revisionista”, si scopre che “Re Bomba”, nomignolo affibbiato a Ferdinando II, era amatissimo dai suoi sudditi che, in occasione di ogni calamità naturale, lo vedevano presente in mezzo a loro. Un re “galantuomo”, lui sì, non certo Vittorio Emanuele II, e clemente. Paolo Mencacci è uno storico serio e cita dei fatti che parlano da sé: dopo la rivoluzione del 1848, nel Regno delle Due Sicilie, unico caso in Europa, non vennero effettuate condanne a morte. Le 42 pene capitali per delitti politici furono tramutate in punizioni più blande da Ferdinando II. Il Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II mandò a morte, nel solo quinquennio 1851-1855, 113 condannati.
Michele Topa nel suo Così finirono i Borboni di Napoli riferisce altre notizie interessanti su quel regno descritto falsamente come un mondo sottosviluppato: “Prima del crollo, il Regno delle Due Sicilie aveva il doppio della moneta di tutti gli Stati della Penisola messi insieme. Sono significative alcune cifre del primo censimento del Regno d’Italia: nel Nord, per 13 milioni di cittadini, c’erano 7.087 medici; nel Sud, per 9 milioni di abitanti, i medici erano 9.390. Nelle province rette da Napoli gli occupati nell’industria erano 1.189.582. In Piemonte e Liguria 345.563”.

E se proprio uno non può leggersi le monografie aggiornate degli storici, può sempre consultare la gloriosa Enciclopedia Italiana della Treccani. Alla voce Ferdinando II si scopre che il Regno delle Due Sicilie vantava molti primati. “La prima ferrovia inaugurata in Italia fu la Napoli-Portici (1839). Ad essa seguì nel regno l’altro tronco Napoli-Capua. Sotto Ferdinando II fu ampliata la rete telegrafica a sistema elettrico. La marineria mercantile a vapore ricevette grande incremento; nel 1848 aveva il terzo posto in Europa per numero e armamento di navi’.

I poveri internati di Fenestrelle rimpiangevano il Regno delle Due Sicilie soprattutto per un motivo: non erano sottoposti alla leva obbligatoria e pagavano meno tasse di quelle esosamente imposte dal Regno d’Italia. Per esempio, come riferisce l’insospettabile Sole 24 ore, “mentre a Napoli non si pagano tasse di successione, in Piemonte queste arrivano arrivano al 10% nel caso di estranei, al 5% nel caso di fratelli, all’1% in caso dei figli. Mentre a Napoli non si pagano tasse sugli atti delle società per azioni e su quelli degli istituti di credito, in Piemonte sì”.

Il bilancio del Regno delle Due Sicilie, al momento dell’invasione garibaldina, era in pareggio.

La situazione in quello di Sardegna catastrofica: il debito pubblico ammontava a 1.024.970.595 lire. La cifra è stata calcolata da Angela Pellicciari che, anziché ripetere le calunnie dei liberali ottocenteschi, ha studiato gli atti parlamentari del Regno di Sardegna. Fatta l’unità d’Italia, l’amministrazione piemontese si abbattè sul Meridione come un flagello, con ruberie ed espropri dei terreni civili ed ecclesiastici. Furono imposte tasse che affamarono la popolazione, in tutto il territorio del Regno, come la famigerata “tassa sul macinato”.

E dopo aver dilapidato le ricchezze accumulate dal buon governo dei Borboni, nel ripartire la spesa per le opere pubbliche, lo Stato “unitario” distinse tra figli e figliastri. Dal 1862 al 1897, tanto per fare un esempio, furono spesi 458 milioni per bonifiche idrauliche. Al Nord e al Centro andarono 455 milioni, 3 al Sud. La gente era esasperata. Si ribellò. Nel 1866 a Palermo, al grido di “Francesco II”, i siciliani fecero capire che cosa pensassero di quella colonizzazione a cui erano stati sottoposti. Il generale Cadorna sparò a cannonate. Alla carneficina si aggiunsero le misure vessatorie contro i sacerdoti che sostenevano la protesta dei poveri. Fu uno degli ultimi atti della resistenza del Sud.

Negli anni precedenti, si erano organizzati in vere e proprie unità militari, guidate, oltre che da ex-ufficiali del Regno borbonico, da esponenti dell’aristocrazia europea che, sdegnati, avevano assistito alla demolizione di uno Stato legittimo e fiorente. Da Torino reagirono con crudeltà. Furono emanate leggi speciali (tra l’altro contrarie alle norme costituzionali dello Statuto albertino) per reprimere la rivolta. Un esercito di 120.000 uomini, comandato dal famigerato Cialdini, occupò il Sud. Le forze numericamente soverchianti riuscirono a prevalere. I soldati del Regno d’Italia, si macchiarono di atti infami: in provincia di Benevento, a Pontelandolfo e Casaduni, che vennero invasi di notte, incendiati e distrutti, uccisero tutti gli uomini, violentarono e squartarono vive le donne, bruciarono i cadaveri sugli altari delle chiese, depredando tutto ciò che trovarono.
I libri del liceo parlano di questo episodio della storia dell’Italia come di “brigantaggio”. In realtà, fu una guerra civile tra italiani. Nel suo saggio “L’invenzione dell’Italia unita”, Martucci ha calcolato che i meridionali caduti nel decennio 1860-1870 oscilli tra “una cifra minima di 20.075 e una massima di 73.875, fucilati e uccisi in vario modo. Vale a dire un numero comunque molto superiore alla somma dei caduti in tutti i moti e le guerre risorgimentali dal 1820 al 1870”. Numero fornito puntualmente da Gaetano Salvemini: “le guerre d’indipendenza fra il 1848 e il 1870 hanno avuto in tutto, 6.262 morti”.

Le calunnie non hanno osato colpire l’ultimo sovrano del Regno delle Due Sicilie, il giovanissimo Francesco II. Dopo aver assistito al tradimento dei suoi generali che in Sicilia vendettero la loro desistenza ripagati dal denaro distribuito da Garibaldi e dagli emissari piemontesi mandati da Cavour, preferì allontanarsi da Napoli per evitare il bombardamento della città e la distruzione delle sue inestimabili opere d’arte. Organizzò l’estrema resistenza a Gaeta piegata dopo tre mesi. Rivolse queste nobili parole ai suoi sudditi per giustificare il suo operato: “In mezzo a continue cospirazioni, non ho fatto versare una sola goccia di sangue, e si è accusata la mia condotta di debolezza. Se l’amore più tenero per i sudditi, se la confidenza naturale della gioventù nella onestà altrui, se l’orrore istintivo del sangue meritano tal nome, sì, certo, io sono stato debole”. E poi ricorda la verità più cruda: “Ho creduto in buona fede che il re del Piemonte, che si diceva mio fratello e mio amico, non avrebbe rotto tutti i trattati e violate tutte le leggi per invadere tutti i miei stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra”. Poi partì in esilio.
 
Al suo passaggio e a quello della sua giovanissima sposa Sofia, i soldati s’inginocchiarono commossi. Molti di loro finirono a Fenestrelle e negli altri lager piemontesi e dalle calunnie e dalle iniquità del “Risorgimento” sorgeva, ancora oggi irrisolta, la Questione meridionale.
Articolo tratto da Dimensioni Nuove

 







venerdì 1 luglio 2016

LA PARTITA DA INFARTO
e qualcuno ci rimase secco sul serio

117 Giugno 1970 ITALIA-GERMANIA 4-3

LA LETTERA SCRITTA DAI DOCENTI DEL LICEO ARTISTICO RUSSOLI DI PISA: “Siamo docenti del Liceo artistico Russoli di Pisa e oggi siamo rimasti...