Massimo Gramellini: nel nome del figlio
Durante il secondo tempo di una partita del campionato Giovanissimi, il
padre di uno dei ragazzini in campo scavalca la rete di recinzione e
prende a ceffoni l’arbitro diciassettenne, mandandolo all’ospedale. Non è
questa la notizia, anzi fino a qui saremmo nella tragica normalità.
Quella dei genitori che considerano i figli un prolungamento del proprio
ego e si ergono a difensori del buon nome della casata contro qualunque
autorità costituita – insegnante, vigile, arbitro – osi lederne il
prestigio con decisioni inopinate: un votaccio, una multa, un rigore non
dato. Ma stavolta affiora una variabile imprevista: di fronte al padre
che ha appena picchiato un adolescente in suo nome, il calciatore
ragazzino scoppia in lacrime, si avvicina alla barella su cui giace
l’arbitro e gli chiede scusa. Con una certa goduria provo a immaginare
la scena: il padre manesco, impavido risanatore di torti, cerca lo
sguardo del figlio per catturare i segnali della riconoscenza e
dell’ammirazione, e invece in quegli occhi gonfi di pianto trova
soltanto la ribellione che nasce dall’imbarazzo e dal disprezzo.
Dicono
che, nel bene e nel male, siamo come ci hanno fatto i nostri genitori,
poi però la vita consegna queste storie di speranza. I cattivi esempi
che si respirano in casa possono essere ribaltati da altri ambienti: la
scuola, la squadra, la compagnia e, soprattutto, se stessi. Si nasce con
il rispetto per gli altri già incorporato: il segreto sta nel non
dimenticarsene quando si cresce.
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