Le condizioni del Sud.
( di Sergio Rizzo per il Corriere della Sera )----------
C'è da rimanere impietriti a guardare in
quali condizioni versa il Sud. Il lavoro è una
chimera, la povertà aumenta vertiginosamente, i giovani scappano, il
divario con il resto del Paese diventa abisso. Per non parlare del
macigno della criminalità.
L'ultimo rapporto del centro studi
sull'economia meridionale Svimez ci consegna uno scenario angosciante,
nel quale avanza soltanto una cosa: la desertificazione. Industriale,
economica, ambientale. Perfino umana: nel 2012 il numero dei morti ha
superato quello dei nati vivi.
CALO DELLA NATALITA'. Nella storia del Mezzogiorno d'Italia era accaduto soltanto due volte:
nel 1867, pochi anni dopo l'unità, e nel 1918, anno dell'epidemia di
spagnola. Un dato che segnala le proporzioni di un dramma destinato ad
assumere proporzioni enormi, considerando che anche la fecondità
femminile ha subito una preoccupante battuta d'arresto. Non si fanno più
figli: 1,35 per ogni donna al Sud, 1,43 al Centro-Nord. Il rapporto
Svimez ci dice che il ritmo dell'emigrazione è ormai costante. L'anno
scorso sono scappati dalle Regioni meridionali in 112 mila.
Negli ultimi vent'anni hanno definitivamente lasciato il Sud 2 milioni
700 mila persone. Fuggono i giovani, che sono il 70 per cento di chi
emigra, fuggono le donne, che sono il 50 per cento, fuggono i laureati,
che sono il 25 per cento. Né il flusso di immigrati riesce a compensare
questo inesorabile esodo, considerando che vanno quasi tutti al
Centro-Nord: sette persone su otto.
NATALITA' NEL MONDO.
Le proiezioni dicono che continuando così per il 2050 il Sud avrà
perduto altri 4 milioni 200 mila abitanti. «Poco oltre la metà del
secolo in corso - avverte il rapporto - il Mezzogiorno è destinato a
diventare una delle aree con il peggior rapporto tra anziani inattivi e
popolazione occupata e con la più alta percentuale di ultraottantenni
sul totale della popolazione complessiva».
EMIGRANTI ITALIANI. La grande fuga ha ragioni innanzitutto economiche, anche se non sono le
uniche. Perché se la crisi ha messo in ginocchio il Paese, il Sud è
letteralmente al tappeto. Un dato ci dice tutto: nel 2012 il Pil
procapite, cioè la ricchezza prodotta da ciascuno, è pari al 57,4 per
cento di quello del Centro-Nord. In media 17.264 euro contro 30.073. I
più poveri in assoluto sono i calabresi, con 16.460 euro. Appena sopra
quella soglia, i campani (16.462) e i siciliani (16.546). Il Prodotto
interno lordo del Mezzogiorno è pari oggi al 30 per cento di quello del
resto del Paese: nel 2007, prima che la Grande depressione iniziasse,
era il 31,1.
ITALIA
Il divario è addirittura più ampio rispetto a quello che si registrava
quarant'anni fa e dal 2005 aumenta progressivamente. Tanto da rendere
concreto il rischio di quello che il ministro della coesione Carlo
Trigilia, sociologo siciliano autore del libro «Non c'è Nord senza Sud»
chiama «la trappola del sottosviluppo». Dal 2007 al 2012 il Pil
meridionale è piombato giù del 10 per cento, a fronte di un calo del 5,8
per cento nel Centro-Nord. I dati Svimez dicono che, andando avanti di
questo passo, per colmare il fossato che separa le due Italie ci
vorrebbero quattro secoli.
Ancora. Nei cinque anni considerati i consumi delle famiglie sono scesi
del 9,3 per cento, contro il 3,5 per cento del Nord. Gli investimenti
industriali sono crollati del 47 per cento. Soltanto fra il 2009 e il
2012 il settore manifatturiero meridionale ha perduto il 20 per cento
degli occupati, lasciando per strada 158.900 persone. La disoccupazione
«ufficiale» media è al 17 per cento, a fronte dell'8 per cento nel resto
d'Italia. Nel 2012 il 60 per cento dei senza lavoro meridionali si
trovava in quella tragica condizione da più di un anno. Di conseguenza,
il tasso di occupazione delle persone in età lavorativa, compresa cioè
fra 15 e 64 anni, è ai minimi termini: 43,8 per cento, 20 punti esatti
meno del 63,8 per cento che si registra nel Centro-Nord.
Nel primo trimestre del 2013 il Sud ha perduto altri 166 mila posti di
lavoro, con il risultato che il numero degli occupati è sceso sotto la
soglia dei 6 milioni: non accadeva dal 1977, trentasei anni fa. I
giovani sono letteralmente falcidiati, con un tasso di disoccupazione
del 28,5 per cento, cresciuto di dieci punti rispetto al 2008, quando la
crisi è iniziata. Il conto, di cui è in gran parte responsabile una
classe dirigente inadeguata, adesso lo pagano loro. Quelli che restano,
almeno.
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